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Quale destino per la legge Calderoli sull’autonomia? Prime riflessioni dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale

Quale destino per la legge Calderoli sull’autonomia? Prime riflessioni dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale

Il 3 dicembre è stata depositata la sentenza n. 192/2024 della Corte costituzionale con le decisioni assunte rispetto alle questioni di legittimità avanzate dalle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania nei confronti della legge sull’autonomia differenziata.

Ora, a qualche giorno di distanza, è interessante svolgere qualche prima riflessione, soprattutto in relazione alle reazioni giunte dai diversi schieramenti.

Per gli oppositori la legge è stata demolita dai giudici della Consulta, pertanto bisogna immediatamente fermarsi. Allo scopo, già il 19 novembre avevano presentato una mozione unitaria alla Camera dei deputati, con la quale si chiedeva al governo di interrompere immediatamente i negoziati avviati con le Regioni sulle materie non-lep, nonché di sciogliere il Comitato per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (CLEP) presieduto da Sabino Cassese. Ma ovviamente la stessa è stata respinta con 155 no, 124 sì e due astenuti.

Infatti, al contrario, i fautori della norma continuano a sostenere che si possa andare avanti senza troppi problemi, poiché la Corte ha salvato la legge, avendo ritenuto non fondata la questione di costituzionalità posta sull’intero testo.

Il ministro Calderoli si è affrettato a dichiarare che «Non ha senso parlare di vincitori o di vinti. La Consulta ha sancito che l’Autonomia è costituzionale, questa è una rivoluzione copernicana per il sistema italiano»; o ancora che «La gran parte dei rilievi mossi possono essere agevolmente superati in fase di attuazione della legge, anche con il coinvolgimento del Parlamento, come richiesto dalla Corte». Sulla stessa lunghezza d’onda il Presidente veneto Zaia e quello lombardo Fontana.

Ma allora, come stanno veramente le cose? Provo a tracciare delle prime riflessioni, considerato anche che dopo il deposito della decisione risulta essere più chiaro l’iter logico-argomentativo seguito dai giudici, soprattutto per quelle parti dove è stata compiuta un’attività di interpretazione costituzionalmente orientata della legge.

Personalmente, ho sempre sostenuto che né l’autonomia né il regionalismo differenziato possono essere considerati di per sé contro la Costituzione.

La prima è sancita dall’art. 5 fin dal testo del 1948; il secondo è stato introdotto dalla riforma del Titolo V operata nel 2001.

Il provvedimento Calderoli è semplicemente una norma procedurale di attuazione dell’art. 116 Cost., terzo comma; pertanto, non trovo sorprendente che i giudici abbiano voluto confermare la legittimità costituzionale di una legge propriamente esecutiva proprio di quelle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste dalla nostra Carta all’art. 116, terzo comma.

La verifica, piuttosto, si è concentrata sulle modalità di attuazione previste. E a me sembra che sia proprio su questi aspetti che la Corte abbia demolito la norma, smantellando i pilastri posti alla base del suo impianto, e bollandola come una sorta di attuazione incostituzionale della Costituzione.

Non c’è spazio sufficiente per entrare pienamente nel merito, ma in sintesi la pronuncia ha ribadito «il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni». Eppoi ha escluso che la devoluzione possa trasferire intere materie, ma può riguardare solo «specifiche funzioni legislative e amministrative e deve essere giustificata in relazione alla singola Regione»; precisa che l’iniziativa non è «riservata unicamente al governo» in quanto «la legge di differenziazione non è di mera approvazione dell’intesa (prendere o lasciare) e implica il potere di emendamento delle Camere»; la determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (e dei relativi costi e fabbisogni standard) non può avvenire sulla base di una delega legislativa «priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del governo, limitando il ruolo del Parlamento»; avverte che le risorse destinate alle funzioni trasferite dovranno essere individuate «non sulla base della spesa storica, bensì prendendo a riferimento costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza».

E nemmeno a dire che si sia limitata a ciò poiché, oltre alle censure palesate, i giudici della Consulta sembrerebbero aver inflitto un ulteriore colpo alle velleità secessioniste padane. Ritengo, infatti, che proprio attraverso quelle interpretazioni costituzionalmente orientate siano state (finalmente) definite anche delle modalità univoche di applicazione dell’art. 116 Cost., terzo comma.

I giudici, infatti, non si sono limitati a un esame della norma Calderoli, ma hanno operato una vera e propria delimitazione degli argini costituzionalmente insuperabili per qualsiasi processo di attuazione si voglia intraprendere; e questo sia per quelli che vengano fatti attraverso una legge procedimentale (tipo quella di cui stiamo parlando) sia in diretta attuazione della Costituzione (come tentato negli anni da precedenti governi).

La Corte, riprendendo quell’azione interpretativa che nei decenni passati aveva già attuato sull’intero Titolo V riformato nel 2001, ha contribuito a chiarire anche molti di quei dubbi interpretativi causati da una disposizione costituzionale scritta in maniera alquanto opaca, riconducendo definitivamente i temi dell’autonomia e del regionalismo nel contesto della forma di Stato e della forma di governo dettate dalla nostra Costituzione.

In altre parole: sì all’autonomia e al regionalismo differenziato, ma senza poter mettere in discussione i princìpi che sono alla base della Repubblica una e indivisibile (art. 5), dell’uguaglianza sostanziale (art. 3), della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, lett. m), della perequazione finanziaria quale strumento di superamento dei divari territoriali (art. 119).

E soprattutto sempre aderente a quel modello di regionalismo cooperativo e solidale posto alla base della nostra Carta, assolutamente incompatibile con un disegno che avrebbe potuto deviare verso un sistema spiccatamente competitivo

Infine, in chiusura del proprio comunicato, aspetto che ho trovato poco evidenziato in molti commenti, i giudici hanno ribadito pure che per le future iniziative la stessa Corte «resta competente a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione, qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale».

Un’affermazione tutt’altro che scontata, che avrà un sicuro impatto per i prossimi provvedimenti, ma che dovrebbe essere ascoltata come monito anche da chi si ostina a ritenere che gran parte dei rilievi mossi dalla Consulta possano essere agevolmente superati con piccoli aggiustamenti in fase di attuazione della legge.


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