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Settembre 16, 2024

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Elezioni europee. Dal voto sul territorio provinciale alle prospettive per le istituzioni dell’Unione

Elezioni europee. Dal voto sul territorio provinciale alle prospettive per le istituzioni dell’Unione

Passati alcuni giorni dal voto si può tentare un’analisi più oggettiva dei risultati, nonché comprenderne l’impatto sui futuri assetti delle istituzioni europee.

Per cominciare, il primo dato che balza all’attenzione è la scarsa partecipazione, registrata anche sul territorio della Provincia di Roma.

Alle elezioni delle scorse settimane, infatti, dei 4.701.394 aventi diritto nella Regione Lazio si sono recati alle urne appena il 46.64%, dato che nei seggi della Provincia scende ulteriormente al 45.07%. Non è ancora possibile avere il quadro preciso sui voti effettivamente espressi, poiché a tutt’oggi (sic!) mancano 78 sezioni di Roma Capitale, inviate all’Ufficio elettorale provinciale per il completamento delle operazioni. I voti validamente espressi a livello regionale sono quindi fermi a 2.078.494, ma quelli che saranno aggiunti all’esito delle suddette verifiche di certo non potranno incidere sull’analisi generale.

Questa scarsa affezione verso le urne non può sorprendere più di tanto, se si considera che già in occasione delle recenti elezioni regionali, celebrate il 12 febbraio del 2023, si era assistito a un tracollo dell’affluenza, che allora si fermò addirittura a un 37.20% degli aventi diritto; in pratica su 4.791.612 potenziali elettori avevano espresso il voto per l’elezione del Presidente della Regione e Consiglio solo 1.782.656, dato ancora più basso nel territorio metropolitano, dove la partecipazione si era fermata al 35.17%.

Tale tendenza non può considerarsi invertita dall’aumento registrato alle europee dell’8-9 giugno, poiché non v’è dubbio che su di esso abbia influito in termini positivi lo svolgimento contemporaneo delle elezioni amministrative in 142 comuni laziali, di cui 30 nella Provincia di Roma. Basta infatti indagare l’affluenza sui comuni che hanno votato nelle sole europee per constatare che in questi la forbice è stata costantemente sotto il 50% (con un minimo del 34.12% registrato ad Ardea e un massimo di 66.55% a Jenne), mentre in quelli dove si è votato anche per i sindaci la percentuale media si è attestata sul 67% (con un minimo del 61.17% a Tivoli e la punta massima del 91,28% a Vallepietra).

Siffatte cifre obbligherebbero tutte le forze politiche a una seria riflessione sulla crisi di rappresentanza in atto, che a ogni occasione trova conferma in un continuo allontanamento dei cittadini dalla politica, di cui l’astensione agli appuntamenti elettorali è solo un aspetto, anche se trai i più evidenti e preoccupanti per la tenuta delle società democratiche. È vero: in democrazia decide chi vota, seppure rappresenti una minoranza; però a fronte di un fenomeno così rilevante e diffuso, anche in gran parte dei Paesi europei, non si può negare una divaricazione sempre più netta tra un principio di democrazia formale (governa chi vince) e uno di democrazia sostanziale (da quanti si è stati effettivamente eletti). Ma di questi ragionamenti sembra interessare poco ai partiti. Per lo più sono affrontati con superficialità, nella migliore delle ipotesi limitati alle chiacchiere da talk show in quei pochi minuti che passano tra la chiusura dei seggi e l’arrivo dei più succulenti exit poll, gli unici che portano subito i presenti a cimentarsi in improbabili divinazioni sui risultati ottenuti, con analisi spesso parziali e finalizzate alla sola giustificazione della loro narrazione di comodo. Che poi sia di vittoria o di sconfitta poco importa; e che in Italia abbia votato solo il 49.69% dei potenziali elettori ancora meno!

Detto dell’alta astensione, nelle elezioni europee appena svolte il primo partito nella Regione Lazio risulta essere Fratelli d’Italia con 688.199 voti (33.11%), così come nei comuni della sola Area metropolitana di Roma con 471.622 voti (31.81%). Al secondo posto si piazza il Partito Democratico con 472.948 voti regionali (22.75%) e 372.199 in provincia (25.11%). Al terzo gradino del podio troviamo il Movimento 5 Stelle con 218.596 su tutta la Regione (10.52%) e 160.246 nella sola provincia romana (10.81%). Seguono Alleanza Verdi e Sinistra 172.814 su base regionale (8.31%) e 141.298 provinciale (9.53%); Forza Italia 153.401 (7.38%) e 80.157 (5.41%); Lega 137.931 (6.64%) e 77.683 (5.24%). Sia a livello regionale che provinciale il consenso di Stati Uniti d’Europa e Azione rimane sotto la soglia del 4%.

Un utile raffronto può essere svolto con i voti espressi nei comuni dell’Area metropolitana di Roma alle ultime regionali del 2023 poiché, pur nella differenza di affluenza precedentemente evidenziata, è facilitato dalla vicinanza tra le stesse, e anche dalla quasi identica formazione delle forze politiche in campo.

Per rimanere ai partiti maggiori, ad esempio, FDI passa dal 34.30% delle regionali al 31.81% delle europee; il PD dal 20.91% al 25.11%; i 5S dal 9.38% al 10.81%; AVS dal 3.35% al 9.53%; FI dal 6.12% al 5.41%; la Lega dal 6.70% al 5.24%; Azione e Italia Viva (unite alle regionali) sommate ai voti radicali raggiungevano un 6.58%, mentre alle ultime europee si attestano su un totale del 7.8%.

Pertanto, al di là della diversa tipologia di elezioni, nonché del voto ai partiti leggermente alterato nelle regionali per la presenza delle liste civiche in appoggio ai Presidenti (ma vale per ciascuna delle coalizioni), si evidenzia la tendenza a una perdita di consensi nella percentuale di tutti i partiti del centrodestra e un aumento di tutti quelli ascrivibili a un ipotetico campo del centrosinistra, o comunque attualmente all’opposizione dei governi nazionale e regionale. Riportati i dati ufficiali, ognuno ne potrà derivare le considerazioni che ritiene opportune.

Fatto questo excursus sulla situazione locale, resta da effettuare un’analisi più complessiva per comprendere i nuovi equilibri che si sono venuti a creare a Bruxelles, cercando anche fuga dal vizio di leggere il voto soffermandosi sui soli risvolti nazionali; tendenza a dire il vero non solo nostrana, come dimostra la decisione del presidente Macron di sciogliere subito il Parlamento francese proprio a seguito dei risultati elettorali.

Allargando quindi lo sguardo, secondo i dati delle ultime proiezioni il nuovo Parlamento europeo risulta così composto: 189 seggi ai Popolari, 136 ai Socialisti e Democratici, 74 ai liberali di Renew, 83 ai conservatori di ECR, 58 ai sovranisti di Identità e Democrazia, 53 ai Verdi, 39 alla Sinistra. Il computo si chiude con 45 seggi attribuiti ai cosiddetti non-iscritti (in maggioranza deputati ultra-conservatori) e 43 agli altri ancora da determinare.

Con tali risultati, pertanto, l’importante affermazione delle destre (soprattutto populiste) in molti Paesi europei, di cui tanto si è parlato nell’immediatezza dei commenti post-voto, non sembra ripercuotersi in maniera determinante sulla composizione del Parlamento e, conseguentemente, sul peso delle loro rappresentanze per le decisioni che si dovranno assumere relativamente all’elezione delle presidenze della Commissione, del Consiglio europeo, della stessa Assemblea e dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Va ricordato, infatti, che solo il Parlamento viene eletto attraverso il voto diretto dei cittadini, mentre per i vertici delle altre istituzioni è necessario raggiungere un accordo politico, che dovrà tenere necessariamente conto dell’assetto determinato dal voto e del peso dei diversi Stati in seno all’Unione.

La partita più intrigante, come di consueto, si sta giocando attorno al ruolo di presidente della Commissione. Al momento, l’uscente Ursula von der Leyen vorrebbe aspirare alla conferma, considerata l’affermazione del PPE di cui è la candidata, nonché la sostanziale tenuta dei S&D; e con molta probabilità avverrà. Ci sono però anche dei rischi a lungo termine, poiché l’asse portante della precedente maggioranza Ursula è uscito indebolito dalla sconfitta subita dal partito di Macron (con la conseguente perdita di seggi per Renew).

Preso atto, pertanto, della necessità di un allargamento del consenso, che al di là delle nomine deve trovare una maggioranza più larga disponibile ad appoggiare il programma dell’UE nei prossimi 5 anni, la discussione di queste settimane post voto si è concentrata sulla strada da prendere, trovandosi di fronte a un bivio alquanto rilevante per il futuro dell’Unione: estendere il consolidato asse PPE-S&D-Renew verso chi vorrà starci di Verdi e Sinistra, oppure pensare a un assetto completamente differente dal precedente, con un coinvolgimento di una parte dei conservatori di ECR, ipotesi a più riprese indicata dalla stessa von der Leyen, ma accolta con molta freddezza da diverse componenti del PPE e con assoluta ostilità da parte dei S&D.

Gli scenari sono ancora tutti aperti, anche per l’elevata trasversalità presente nei gruppi politici europei, composti spesso da parlamentari schierati su fronti diversi nella politica nazionale. Si pensi, come esempio, agli eletti di Forza Italia che nel nostro Paese partecipano a un Governo di centrodestra, ma in Europa fanno parte del PPE alleato con i Socialisti e Democratici; o viceversa agli eletti del Partito Popolare spagnolo, che in casa stanno all’opposizione del Governo a guida socialista, ma in Europa si troverebbero a essere coalizzati.

Al momento in cui si scrive, la regia dei mediatori PPE-S&D-Renew sembrerebbe aver scelto di mantenere come punto di partenza l’accordo a tre, cercando eventualmente solo appoggi esterni sulla proposta che verrà avanzata al Consiglio europeo, composta da Ursula von der Leyen per la presidenza della Commissione, António Costa per il Consiglio europeo, Roberta Metsola per il Parlamento e Kaja Kallas per il ruolo di Alto rappresentante.

Resta l’obiettivo primario di mettere in sicurezza l’asse europeista contro il rafforzamento dei gruppi euroscettici. Le prossime decisioni sapranno dirci se l’equilibrio trovato sarà capace di ottenere il consenso necessario a farlo, o se invece si renderanno necessari appropriati cambi di rotta.


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