Episodio 1 – Il paesaggio
Che la superficie terrestre, nell’elevarsi in montagna, esprima la volontà di farsi stella non è stata di certo idea ispirata al Novalis dalla dolcezza collinare dei Castelli Romani, alture esauste ed onuste da vigneti prima che se ne sconvolgessero i filari per far posto ai nuovi arrivati, i kiwi, grappoli mostruosi immigrati da terre lontane. I quali, ovviamente, non sanno di miti e leggende mediterranee, storie e riti connessi, figurarsi della Storia tal quale la raccontano nei libri di testo in uso nelle scuole elementari e post.
Il contenuto di queste dissertazioni a puntate non attiene, come sarebbe naturale, nel rispetto del carattere antico dei suoi nativi abitanti, se pur ancora ve ne siano, l’Albano “paese” (o Città secondo le ambizioni distruttive dei politici con regale corte di laudatori al cemento armato, giullari e sbandieratori), ne’ l’Albano “valico”, storico passaggio obbligato tra il nord ed il sud e viceversa, con in mezzo Roma, fumosa comunque e divoratrice. Il che, complice la sciabolata della Via Appia, quella Nuova, che si suppone funzionale ma non si riesce ad immaginare bella, cui si affianca la ineffabile variante tangenziale: viadotti e gallerie che si alternano ad ovest dell’abitato storico violentando gli insediamenti preeseistenti, ha finito, infine, per chiudere in una unicità intrafficabile il paese ed il valico. Rimane in disparte, nell’angolo claustrofobico delle memorie che nessuno vuole ricordare e tantomeno rispettare, l’aspetto del divenire storico dei luoghi.
Sicché, l’Albano paese (o città c.s.) risulta radicalmente diverso, almeno a sentire i racconti dei vecchi, dal precedente. Per l’immediato futuro e per il futuro-futuro l’aspetto di Albano muterà ancora e subirà la sorte quale sarà decisa dalle superiori Autorità, compreso il Padreterno che, stanco ed irritato per tanta babelica ingratitudine, soffierà su questo mondo il vento tenebroso del kaos primordiale.
Argomento iniziale: il paesaggio come primo saluto a poeti, pittori e fotografi in transito, ai viandanti in fase di riposo, ai turisti “singoli” ed a “pacchetti”. E senza contraddire le retoriche “meraviglie” delle banalità di “guide” compilate dagli esperti del settore, i quali ritengono, purtroppo a ragione, che la forza attrattiva del paesaggio sia un valore aggiunto commutabile in richiami turistico-alberghieri con correlativo prezzo in valuta pregiata. In quanto ad osservatorio panoramico centrale, Albano Laziale ha titoli eccezionali per lanciare lo sguardo verso il mare donde Enea risalì verso le alture lasciando comodo agli eredi la fondazione di Alba e scomodo ai puntigliosi ricercatori, la individuazione del luogo.
Con uno sguardo a semigiro dall’altura ove Albano, da tempo immemorabile, ha fissato la sua geografica residenza, l’orizzonte appare, nelle belle giornate, con uno slargo di vista accettabile ed accettato, considerato che l’altura de quo, secondo calcoli di competentissimi topografi e cartografi che giurano su ogni metro misurabile e misurato al centimetro e ne certificano il tracciato, si attesta a m. 384.
Malgrado questa miseria, ci ostiniamo a definire questo insieme di poggi, colli, colline come il complesso dei Monti Albani, sebbene monte non sia sinonimo di colle, così come torrente non è sinonimo di fiume. Con il consistente pericolo che una nuova misurazione smentisca la precedente riducendola o aumentandola di un “tot”, più o meno. La qual cosa non sarebbe, però, imputabile ai suddetti “addetti” ma alle evenienze climatiche, oramai imprevedibili, smodate e arbitrariamente ricorrenti, con corollari di smottamenti, di saliscendi tufacei o lavici, di repentine metamorfosi geologiche ché il mitico vulcano laziale è ben vivo e vegeto sotto i nostri piedi, di piogge simildiluviane ed eventi salgariani da mari del sud. In una parola, alla “vendetta” della Natura contro gli sconvolgimenti degli uomini, che alcuni, per sgravarsi la coscienza, chiamano “progresso ecosostenibile”, per poi continuare, nascondendosi dietro il linguaggio ambientalista, a violentare acqua, terra, cielo.
In quel semigiro d’orizzonte-panorama è ancora e comunque visibile il “verde” che, finché resisterà agli assalti delle brigate palazzinare, nonché degli urbanisti guastatori, e degli abusivi “parvenu” (o nuovi ricchi), disurbanizzati trimalcioni con piscina al seguito, sarà ancora un’oasi salubre anche se vieppiù limitata in ristrettezza dal viavai motorizzato. Insomma scomparso e definitivamente funeralizzato il “divino del pian silenzio verde”, il territorio castellano ed i suoi silenzi, ha dovuto adattarsi alle esigenti manie del consumismo e alle inevitabili conseguenze del pendolarismo verso la calamita romana.
Volgendosi verso l’interno, invece, devesi limitare lo sguardo verso Roma, che sfuma in apparente lontananza, risucchiata, senza il soffio del deceduto “ponentino”, dagli inquinanti scaricati dai motori malgrado i protocolli Euro 2, 3, 4, e via contando. Il che impedisce la circolarità della vista anche per la millenaria presenza di Monte Cavo, già sede del Giove Laziale prima che si trasferisse in Campidoglio per far posto ai Pontefici e loro Rocca, ed oggi ridotto a “servitù” delle antenne televisive con relativo montante inquinamento elettromagnetico. Il restante visibile e da visionare non è poco ed ancora (ma fino a quanto?) di una residua bellezza: tutto il territorio a ponente di Monte Cavo, un rapido abbraccio al lago, un tempo specchio per artisti e financo atleti olimpici ed ora per vari aspetti, in purtroppo rapida ed incontrollata ritirata. Ad ovest, in basso, oltre la Via Appia e le traverse via Nettunense, Ardeatina e più oltre Laurentina e Pontina l’occhio può bagnarsi, metaforicamente s’intende, nel mare, visibile tra la spianata di Fiumicino e Maccarese (a nord) e la Torre Astura ed il Circeo (a sud); luoghi e territori un tempo infrequentabili regni della Anofele, “Regina delle paludi”, immortalati, per misteriosi incanti e magiche atmosfere, da eserciti di pittori, poeti, scrittori.
In certe ore vesperoturchine la vista d’insieme è ancora suggestiva a condizione di non perdersi nel particolare. Meglio accontentarsi, quassù, dei punteggianti ciclamini lungo i viottoli e le Gallerie arboree di Sopra e di Sotto, e ricordarsi, per interiore godimento, che laggiù, nei terreni paludosi, fioriva e, forse, fiorisce ora in asciutto, l’orchidea.
A percorrere adagio i dintorni di Albano ed accontentandosi di ciò che resta a vicinanza d’occhio, senza la pretesa dello shock per impressione bucolico-cromatica, tra tufi muschiosi, verdi scuri, verdognoli, verdi chiari, ciuffi d’erba e il verde argento degli ulivi (finché resisteranno prima di cedere alla vergogna concentrata della urbanizzazione) ce n’è a sufficienza per illudersi sui valori della campagna. E senza bisogno dell’aggravio roboante e didascalico, così fastidiosamente ridicolo, delle pubblicazioni che vogliono condurci per romantiche passeggiate nei Castelli Romani, abbuffate “for de porta” comprese, nemmeno fossimo ai tempi di un “Grand Tour” del terzo millennio.