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Settembre 08, 2024

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L’autonomia differenziata è legge. Primi effetti immediati e alcuni spunti di riflessione

L’autonomia differenziata è legge. Primi effetti immediati e alcuni spunti di riflessione

Lo scorso 19 giugno, con 172 voti favorevoli, 99 contrari e un astenuto il disegno di legge sull’autonomia differenziata è stato approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati.

Successivamente, il Presidente della Repubblica ha promulgato la legge, così come dettato dall’art. 73 della Costituzione, non ravvisando le condizioni di esercizio del potere previsto dall’art. 74 che gli avrebbero consentito di rinviarla alle Camere con messaggio motivato chiedendone una nuova deliberazione.

Il provvedimento entrerà in vigore dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Vediamo allora quali saranno gli effetti.

Innanzitutto, va tenuto presente che l’approvazione della legge non comporta il trasferimento automatico di competenze alle Regioni. Essa è infatti una norma di natura procedurale, dove vengono indicati il percorso e le regole che dovranno essere seguite qualora si vogliano ottenere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, così come stabilito dal terzo comma dell’art. 116 Cost.

Le materie su cui potenzialmente può essere domandata la differenziazione sono 23, tra cui 20 di legislazione concorrente Stato-Regioni (elencate nel terzo comma dell’art. 117 Cost.) e 3 di legislazione esclusiva dello Stato, ma attribuibili con legge alle Regioni che le richiedano (elencate alle lettere l-n-s del secondo comma art. 117 Cost.). Insieme ad esse, come evidenziato da alcuni studi, si sposterebbero almeno 500 funzioni verso la competenza regionale.

Spesso nei dibattiti in corso si sente affermare che nell’immediato non succederà niente, poiché durante la discussione in Senato è stato approvato un emendamento, confermato poi nel testo definitivo della legge, con il quale si è stabilito che si potrà procedere alla concessione dell’autonomia alle Regioni richiedenti soltanto dopo la determinazione dei medesimi LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard, nei limiti delle risorse rese disponibili nella legge di bilancio.

In parte è vero, ed è una modifica molto importante apportata al disegno di legge iniziale, per effetto della quale ora si può quantomeno auspicare una maggiore attenzione alla tutela di quei diritti fondamentali che la nostra Costituzione pretende garantiti uguali su tutto il territorio nazionale, evenienza che appariva parecchio remota nelle disposizioni del precedente testo.

Ma per verità di cronaca andrebbe anche aggiunto che restano tutti validi i dubbi sulle reali possibilità di finanziamento, oltre al fatto che nel frattempo le Regioni potranno avviare subito il dialogo con il Governo per chiedere il trasferimento di 9 materie, ritenute dalla Commissione Cassese non-leppizabili, cioè non vincolate al finanziamento dei LEP.

Tanto per comprendere l’impatto che ciò avrebbe sull’impianto del riparto Stato-Regioni vale la pena specificare che si tratta di: rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero; professioni; protezione civile; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; organizzazione della giustizia di pace. Secondo le simulazioni effettuate, queste 9 materie si trascinerebbero dietro ben 184 funzioni.

Per chi volesse opporsi a questa legge, invece, la Costituzione offre principalmente due strumenti: ricorsi alla Corte costituzionale e Referendum abrogativo ai sensi dell’art. 75 Cost.

Anche qui, è opportuna una specificazione: il provvedimento appena approvato non è una riforma costituzionale, ma una legge ordinaria, e quindi non sarà sottoposta a Referendum confermativo ai sensi dell’art. 138 Cost.

Pertanto, il primo e più immediato strumento per contrastare la sua efficacia è il ricorso alla Corte costituzionale che, come previsto dall’art. 127 Cost., può essere promosso da ogni Regione entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto avente valore di legge.

Il secondo strumento è il suddetto Referendum abrogativo, che può essere proposto per cancellare una legge o una parte di essa. Richiede una tempistica più lunga e soprattutto il raggiungimento del cosiddetto quorum, essendo obbligatoria la partecipazione di almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto per essere ritenuto valido. La sua indizione può essere richiesta da 5 consigli regionali o da 500.000 elettori. Se i promotori volessero raggiungere l’obiettivo di celebrarlo entro il prossimo anno, le firme necessarie alla sua presentazione e debbono essere depositate entro il 30 settembre, altrimenti si scavalcherebbe all’anno successivo.

Tornando ai contenuti, va ribadito che non è la sola evocazione dell’autonomia o del regionalismo differenziato a mettere in pericolo i princìpi fondamentali della nostra Costituzione, bensì le modalità con cui si vorrebbero attuare.

La prima, infatti, è prevista sin dalla Carta del 1948, l’hanno voluta i nostri padri e madri costituenti; ma va sempre sottolineato come nella esemplare formulazione dell’art. 5, posto addirittura tra i princìpi fondamentali, trovano equilibrio, legame e uguale peso, il principio della Repubblica una e indivisibile, con il riconoscimento e la promozione delle autonomie, dell’autonomia e del decentramento. Il secondo è stato poi introdotto dalla riforma del Titolo V approvata nel 2001; ma pure in questo caso va rimarcato come il nuovo articolo 116 terzo comma vada letto in assoluto combinato disposto con l’intero impianto costituzionale storico e riformato. Esso non è certo una norma di rottura dell’ordinamento vigente, tuttavia deve essere maneggiato con molta cura. La sua attuazione, infatti, ha comunque un’ovvia caratura costituzionale, con rilevanti implicazioni nell’ordinamento; e un suo uso inappropriato potrebbe pericolosamente condurre verso un modello di federalismo competitivo, producendo effetti deleteri per gli assetti socio-economici e istituzionali dello Stato.

La nostra Costituzione è un edificio solido e fragile allo stesso tempo; un’architettura complessa, la cui stabilità può essere garantita solo se tenuta tutta insieme, nel suo equilibrio generale.

Le vicende storico-politiche del regionalismo italiano sono state lunghe e travagliate. Per questo motivo è superficiale liquidare semplicemente come contraddittorie o strumentali posizioni che in passato abbiano guardato con favore ad alcune forme di autonomia, mentre oggi ritengono la legge appena approvata inadeguata, nonché soggetta a rischio di legittimità costituzionale per molti suoi profili.

Promuovere un modello di differenziazione solidaristica, o altrimenti detta cooperativa, sarebbe infatti assolutamente coerente con quello ispirato ai princìpi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione che, con tutti i suoi limiti, è stato comunque posto alla base del processo riformatore del 2001. Tutt’altra cosa, invece, sarebbe sostenere un modello di differenziazione competitiva, che pone a presupposto delle richieste, direttamente o surrettiziamente, il trattenimento sui propri territori del presunto residuo fiscale, poiché le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste dal dettato costituzionale non esonerano certo chi le ottenga dall’obbligo solidale di partecipare allo sviluppo della Repubblica nel suo insieme e di garantire l’eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini pretesa dal secondo comma dell’art. 3 Cost. Non è solo questione di solidarietà, ma di costituzionalità.

Nell’attuare le forme di autonomia previste dalla Costituzione mai possono essere messi in discussione i princìpi dell’unità e dell’uguaglianza sostanziale: l’art. 5 stabilisce che la Repubblica, è una e indivisibile; l’art. 3 che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale; l’art. 119 che è dovere dello Stato destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri.

Se si agisse distintamente dentro questi confini, d’accordo o meno con il processo messo in atto dal Governo, sarebbe più difficile evocare disegni secessionisti o manovre di demolizione dell’impianto costituzionale. Ma purtroppo non sembra scorgersi questa certezza e nell’analizzare la norma approvata dal Parlamento continuano ad aleggiare numerosi dubbi, come confermato dalle forti perplessità avanzate da autorevoli studiosi della materia, nonché dalle osservazioni apportate nella discussione da Banca d’Italia, Ufficio parlamentare di Bilancio, Confindustria, associazioni dell’artigianato e del commercio, Conferenza Episcopale Italiana e tanti altri ancora…

Nascere o risiedere in luoghi diversi del nostro Paese non può determinare forme di cittadinanza diverse; anzi, se differenze ci fossero, sarebbe proprio lo Stato a dover intervenire per eliminarle.

Ne dipenderà il destino dell’Italia e l’unità della Repubblica.


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