Nelle prossime settimane la Corte costituzionale comincerà la discussione sulle questioni di legittimità relative alla cosiddetta legge Calderoli per l’attuazione dell’autonomia differenziata, sollevate ai sensi dell’art. 127 Cost. dalle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania.
Le obiezioni presenti nei ricorsi sono molteplici, ma tra queste ritengo che le più delicate per la tenuta dell’impianto costituzionale siano le criticità inerenti alle materie attribuibili, ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e alla valutazione del ruolo attribuito al Parlamento.
Provo a darne motivazione, pur con la necessaria sintesi.
Materie attribuibili. La legge Calderoli ha accolto un’interpretazione estensiva, prevedendo che potenzialmente possono essere tutte quelle previste dall’art. 116 Cost., terzo comma.
Considero che una tale ipotesi sia una forzatura del dettato costituzionale poiché, nella ripartizione delle competenze Stato-Regioni, la differenziazione deve essere intesa come norma speciale, un’eccezione rispetto alla regola, che rimane quella della norma generale dettata nell’art. 117 Cost.
Esso, infatti, è una clausola evolutiva e non dissolutiva del sistema dell’autonomia ordinaria.
Esperienze come l’emergenza sanitaria Covid-19 o le problematiche sull’approvvigionamento energetico scaturite dal conflitto russo-ucraino avrebbero dovuto farci comprendere in maniera definitiva che alcune materie, afferenti ai diritti fondamentali dettati dalla Costituzione o che presuppongono una gestione economica ottimale, debbano necessariamente avere un controllo nazionale.
Personalmente, sarei persino favorevole a ricondurre sotto la competenza legislativa esclusiva dello Stato quelle che incidono sull’uguaglianza dei diritti civili e sociali (sanità, scuola, occupazione, ecc.) e quei settori che risultano strategici per il sistema Paese (ambiente, territorio, protezione civile, commercio estero, rapporti con l’UE, infrastrutture, demanio, energia, ecc.).
Un’altra previsione di dubbia legittimità costituzionale potrebbe stare nel fatto che le richieste non vengano vincolate ad alcuna necessità di motivazione da parte delle Regioni che rivendicano la differenziazione, mentre il dettato costituzionale dell’art. 116 terzo comma, nello specificare che si debba trattare di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, sembra escludere da sé la pretesa di una cessione totale di tutte le materie e conseguenti funzioni.
Se ciò dovesse avvenire si realizzerebbe, di fatto, uno svuotamento della potestà legislativa statale; una rottura dell’impianto costituzionale, con una vera e propria disarticolazione dello Stato unitario e della sua sovranità.
È prevista la possibilità che il Presidente del Consiglio possa limitare tali richieste, ma è una tutela assolutamente insufficiente, poiché è solo una facoltà, peraltro lasciata alla valutazione discrezionale dell’esecutivo, mancando parametri di riferimento univoci e qualsiasi ruolo del Parlamento.
C’è poi la questione delle nove materie che la Commissione Cassese ha ritenuto immediatamente attribuibili alle Regioni senza definizione dei LEP. Un rischio concreto e attuale, poiché i negoziati sono stati già avviati, e tra queste ce ne sono diverse fortemente impattanti sul sistema produttivo, motivo per cui da più parti si è avanzata la preoccupazione di una babele normativa senza precedenti.
Determinazione e finanziamento dei LEP. La legge prevede che si potrà procedere alla concessione dell’autonomia alle Regioni richiedenti soltanto dopo la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e dei relativi costi e fabbisogni standard, nei limiti delle risorse rese disponibili nella legge di bilancio.
Una modifica apprezzabile, inserita nel corso della discussione rispetto al disegno iniziale approvato dal Consiglio dei ministri nel marzo 2023, se non fosse per il fatto che per garantire i princìpi dettati dalla Costituzione i LEP debbono essere finanziati, e non semplicemente definiti; mentre alla base di tutta la legge è stato posto il presupposto dell’invarianza finanziaria, cioè zero risorse per questi stanziamenti, rimandando eventuali necessità al momento della stipula delle singole intese Stato-Regione. Tale previsione è molto pericolosa, poiché crea una parcellizzazione, priva di un disegno omogeneo che servirebbe invece allo Stato per mantenere una visione unitaria.
Ancora più azzardata la scelta di finanziare le funzioni attribuite attraverso il mantenimento della spesa storica e con compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale. Questo meccanismo risulta chiaramente penalizzante per le Regioni che già ricevono minori risorse e che hanno un’inferiore capacità fiscale per abitante; oltre ad aumentare ulteriormente le diseguaglianze già esistenti, risulterà un vero e proprio capestro per il Bilancio dello Stato, che dovrà comunque continuare a garantire i servizi per quei territori che non abbiano chiesto la differenziazione, senza poterlo più fare con la stessa gestione unitaria ed economia di scala.
Molto delicato rimane anche il tema delle modalità individuate per l’approvazione dei LEP, che è affidata al Governo con uno o più decreti legislativi (entro due anni dall’approvazione della legge). Ma in attesa di ciò, questi possono essere comunque adottati con semplice atto amministrativo (ecco di nuovo l’utilizzo dei famigerati decreti del Presidente Consiglio dei ministri) sulla base di quanto previsto dalla Legge di bilancio per il 2023. E sempre a d.P.C.M. è affidato il loro aggiornamento periodico. Assolutamente insufficiente il ruolo assegnato il Parlamento, in questo come in altri passaggi della norma.
Ruolo del Parlamento. In tutta la procedura prevista dalla legge Calderoli la funzione delle Camere appare fortemente ridimensionata, ridotta a mere pronunce di approvazione (ratifica) su provvedimenti prodotti e decisi in altre sedi. Dove è previsto il parere delle Commissioni competenti è imposto un termine brevissimo per esprimersi, spirato il quale i decreti possono comunque essere adottati dal Governo (quasi a estendere una sorta di silenzio-assenso proprio del diritto amministrativo a processi di così forte impatto costituzionale). Inoltre, questi atti di indirizzo delle Camere non hanno alcun potere vincolante considerato che, nella stipula dell’Intesa, il Presidente del Consiglio dei ministri potrà disattenderli con semplice decisione motivata.
In tutto l’articolato della legge viene confermata la tendenza verso una spiccata verticalizzazione della rappresentanza politica, con le decisioni più importanti concentrate verso il vertice esecutivo dello Stato (Governo) e delle Regioni (Giunta), o addirittura verso organismi tecnici a questi subordinati; riducendo gli organi di rappresentanza popolare e detentori della potestà legislativa (Parlamento e Consigli regionali) a semplici soggetti ratificatori. Gran parte delle decisioni sono accentrate nella figura del Presidente del Consiglio e l’Intesa rimane un atto concordato tra il Governo e la singola Regione. Persino sull’atto finale il Parlamento potrà solo votare a favore o contro, non avendo alcuna possibilità di emendare quanto negoziato.
Davvero paradossale questa previsione, oltre che di dubbia costituzionalità, per cui da un lato si chiede al Parlamento di privarsi del suo ruolo primario di organo legislativo, potendo attribuire alle Regioni richiedenti l’autonomia su ben 23 materie, e dall’altro gli si impedisce pure di discuterne nella maniera adeguata.
Non resta che attendere il giudizio della Corte costituzionale su questi temi e sulle altre eccezioni sollevate nei ricorsi, dopo il quale sarà più chiaro anche il destino che toccherà alle richieste di Referendum abrogativo.