Quale grande e triste perdita, quella d’un poeta – ed amico – come Luigi Manzi! Uomo giudizioso e impegnato, sempre e da sempre vocato ad una profonda e appassionata dedizione poetica, che gli ha ispirato opere, liriche tra le migliori, più eleganti e necessitate di questi ultimi decenni.
Conoscevo Luigi almeno dagli anni ’90, ma idealmente da sempre: difficile disgiungere gli incontri, nella vita o sulla pagina…
Malusanza ripristinava e collezionava i primi libri giovanili (La luna suburbana, 1986; Amaro essenziale, 1987)…
Ritrovo oggi alcuni versi che già allora mi colpirono:
Nel buio si fa sazio
solo chi districa l’amore
dai serpi dello strazio.
Mi piaceva quell’aura sensuale, visiva e immaginifica. Metafisica, certo, ma solo per ricelebrare e salvare l’umano, troppo umano:
I rossi vasi al fondo delle arcate.
L’avorio biondo della mano.
Si celano le stelle,
paranze tremule lontano,
fiamme translivide di perle
nel silenzio antelucano.
Ma adoravo Luigi forse ancor più quando riusciva a travasare, distillare il male inesorabile, tutto il (fertile!) dolore del mondo, quasi in rito apotropaico di salvezza… O forse sarebbe meglio dire: salvazione? Accentuando la nostra voglia d’intervenire e intercedere: farci creature attive di perdono, remissione, risemina umanata?
Del male
a ciascuno il suo pane, il suo tozzo.
Appilare. Rifare cataste. Ma il male resiste.
Ed è eterno.
Qua i vivi. Là i tristi.
Il male è tutto degli uomini
che scalpellano gli uni
per gli altri, con bianco furore,
il dolore che possono.
Dario Bellezza – grande poeta di quegli anni e di quella generazione – parlò, giustamente, di visionarismo panico… E mise comunque l’accento sui rischi altalenanti di quella posizione (condizione), che era, vivaddio, ondivaga, in un fervido e illuminato bivio, bilico insieme emotivo ed espressivo:
“… La tradizione in cui si ascrive Manzi è difficile da individuare; il visionarismo panico non è mai stato proprio della poesia italiana, se si eccettua forse certo D’Annunzio e Campana; la tradizione ermetica, quella neorealistica fino al trionfo metalinguistico della neo-avanguardia hanno minato la possibilità del poeta italiano di procedere per illuminazioni invece che per ragionamenti e glosse illeggibili; così Manzi è in una via di mezzo: da una parte vorrebbe tener testa alla sua capacità di visione, dall’altra vorrebbe addormentarla in nome di uno sperimentalismo che è proprio della stagione piena di fermenti che va a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. ...”
Seguirono altre raccolte, e tutte Luigi Manzi me le consegnava, dedicava con l’affetto d’un fratello maggiore (lui era del ’45, io con l’auspicio, che era egualmente pesante, sia in senso storico che generazionale, esattamente d’un decennio in più: classe ’55). Si divertiva insomma a sottolineare la stranezza del nostro defilato, appartato ma impegnato porci, incedere poetico: che privilegiava magari – ebbene sì – la ricca, incorrotta centralità del margine…
Dedica di Capo d’Inverno (’97):
“All’amico carissimo Plinio, cui mi lega la poesia e uno “strano” percorso in più tratti comune…
Dedica di Fuorivia (2013):
“… questo Fuorivia adatto ai solitari e a coloro che procedono sul margine...”
Una sorta d’immensa malinconia cosmica (e cosmogonica) lo insidiava, lo permeava… Si pensi a un testo esemplare come Aloe (1993), battezzato dal consenso d’un grande critico di poesia come Giacinto Spagnoletti:
“… Non è una pax virgiliana d’accordo, ma un inizio di panico ricongiungimento. Per una palingesesi? No certamente. Abbiamo addosso troppo sangue e con esso macchiamo l’acqua che ci ha accolto. Manzi lascia sperare in una sorta di abbraccio fuori di noi stessi, un sogno creaturale del comune destino di appartenere alla sublime essenza del vivere, pur sotto cieli oscuri. ...”
Una delle poesie centrali di Aloe, per l’appunto, sanciva la difficile scelta, adesione della nostra poesia perfino ai lidi della fiaba, all’oasi dell’Utopia… Lirica struggente ed essenziale, che contiene e promulga nella melopèa, nell’elegia fiera-melanconica dei versi, la dichiarazione di poetica che gli apparteneva, e ha collocato in un corsivo che ancora ci accarezza e ci rimorde dentro, splendida sapiente macerazione…
La fiaba, e l’utopia, che qualcuno narrò
e dipinse sulle pietre
neppure è vera per l’anima?
Neppure è carne residua di poeti?
Il fiume è allora un acquitrinio immobile
che fuma nelle gore.
Il viaggio
neppure ha avuto inizio.
Io sono uno che crede
nel dolore che ha radice nel bene
ed è laico. Io so che il furore
si ritorce in se stesso
e ha sigillo nell’orrore.
Verrà il mare, verrà
dopo la catastrofe. E sorgeranno in vetta le stelle.
Saremo noi stessi i posteri.
Saremo il sangue dei venturi. E i sogni
diverranno fiotti di labbra,
sussulti dell’inguine, rovelli di bandiere
stese al vento delle torri,
legittimo e incessante, che nell’aria ci disperde
e volge in elegia del tempo.
Luigi Manzi che parte e ha radici nel ’900 migliore, ha in ogni caso affidato ai primi due decenni del nuovo secolo, e millennio, una meditazione lirica ininterrotta e sempre più affilata, sempre più accordata pur all’Apocalisse imperante, allo smottamento epocale, all’abrasione cosmica, all’annebbiamento inquinato della coscienza…
Fuorivia resta un testo-fulcro, di questa riformattazione emotiva e mentale. Gëzim Hajdari, grande poeta albanese, lo colloca – genialmente – in seno alla sua collana “Erranze” come “poeta italiano esule in patria che ha deciso di condividere il proprio destino umano e letterario con altri esuli stranieri”… Raro, illuminato poeta contemporaneo “capace di rinnovare la tradizione visionaria”, prosegue Hajdari, ha “scritto in uno stato di elevata percezione, è in fondo un esilio dentro gli inferi dell’io centrale del poeta, laddove i conflitti risorgono in forme e figure inquietanti”.
Testimonianza e presagio, sì. Che Luigi Manzi incarna e distilla, vaccina e ritempra con la sua ardente fede ne “La parola”. Il testo che alla Parola egli qui affida, è realmente un’appassionata, laica preghiera di ravvedimento, di auspicio esemplare.
A te che risorgi dai meandri paludosi
con le anguille in seno, cantilenando; a te che mostri
i tagli sul costato, io dedico l’ombra fragile
dei salici con gesto di pietà filiale;
raccolgo i resti abbandonati
sul dirupo.
Possa ora tutta la sua poesia, che l’editore artifex di “Ensemble”, Matteo Chiavarone, ha raccolto a summa definitiva e propedeutica in nome di una più attenta, più devota lettura futura, tenere accesa le fiamma del suo nome e della sua opera. Luigi Manzi grande poeta amico della poesia. Amico vero. Come chi sa che la poesia – anzitutto la propria – va sempre poi affidata, consegnata anche agli altri, resta, rimane come un dono intimo e collettivo di tutti, una luce (anche un’impennata d’ombra, una verticale oltre l’ombra) che è retaggio e lenimento per tutti.
Il fiume degli astri, se alzo lo sguardo,
mi scuote in sobbalzo, e m’avvolge rapinoso,
quasi fosse un carro che rotola sugli assi,
fra detriti di comete e fuochi di quasar
mentre al culmine attraversa in corsa l’emisfero della notte,
e lascia profili nel blu, ombre sottese nello spazio
fra piloni sterminati, altissimi,
che sbocciano
come iris dal cuore delle stelle fisse.