Parte prima
La presente raccolta contiene un centinaio tra Giuochi, passatempi e divertimenti fanciulleschi romani. Non credo che altri prima di me ne abbia mai raccolti, ad eccezione del Belli, il quale, nelle note ai suoi immortali Sonetti romaneschi, accenna a diversi di questi giuochi; note che io non ho trascurato di comprendere nella raccolta presente; la quale, more solito, è fatta senza nessun ordine, senza note comparative, senza classificazione, e insomma… senza nessun intendimento scientifico. Da Svetonio Tranquillo (di cui è fama che oltre alle Vite dei dodici Cesari avesse lasciato un libro sui giuochi de’ Greci), al giorno d’oggi se ne sono stampati di questi libri tanti da formarne una bibliotecola. Non sarà dunque discaro ai cultori del Folk-Lore aggiungere alle altre anche questa raccolta, la quale, ripeto, sebbene fatta senza pretese, potrà all’occorrenza riuscire egualmente di una qualche utilità. Riguardo all’autenticità de’ presenti giuochi, quantunque parecchi dal tempo della mia fanciullezza ad oggi abbiano subìto non lievi modificazioni, posso tuttavia affermare con coscienza che essi sono autenticissimi e precisi, per averli non soltanto veduti fare, ma per avervi a buona parte di essi personalmente preso parte. Non devo poi trascurare di avvertire i lettori che molti degli stessi giuochi, quali per esempio: a Pallina, a Campana, a Picchio, a Sartalaquaja, a Arzà’ la stella, i fanciulli usano praticarli per ordine e a seconda delle stagioni. Così, per esempio, in autunno alzano le stelle, giuocano a Nizza e a Pallina; sul principiare della primavera giuocano al Picchio o a Campana, ecc. ecc.
1. LÈNA, MIA LÈNA.
Uno dei fanciulli o fanciulle che fa da mamma, si mette a sedere; un altro destinato a sorte per via della conta s’inginocchia davanti a lui, e mette la testa tra le sue gambe, in modo di non poter nulla vedere; tutti gli altri vanno a nascondersi. La mamma allora intona la canzoncina:
«Lèna, mia Lèna,
’Sto core sta in caténa
In caténa incatenato
Vé séte accécati?».
E quando i fanciulli nascosti hanno risposto sì, la mamma lascia libero quello che teneva tra le ginocchia, e grida con quanto fiato n’ha in góla: «Curete da mamma; ché ’r cane è sciorto!». Se il fanciullo sguinzagliato riesce ad acchiappare uno dei compagni prima che sia giunto dalla mamma, questo è obbligato a mettersi al suo posto; se no, si deve rimettere in ginocchio egli stesso e ricominciare il giuoco. Così lo descrive il Belli in una nota de’ suoi Sonetti romaneschi.
2. A SSEMMOLÈLLA COR NASO.
È un giuoco antichissimo, uso a farsi, anche dagli adulti, nella notte di Natale o nelle lunghe serate d’inverno. Tutti coloro che vi prendono parte, e possono essere molti, pagano la quota stabilita, un quatrinello (centesimo), un soldo, due, ecc. Colui il quale dirige il giuoco conta il danaro; ne fa tre, quattro, cinque parti, maggiori o minori, a piacimento; e senza farsi vedere dai giocatori, nasconde quelle piccole somme sotto a qualcuno de’ parecchi mucchi di semolèlla o semola (crusca), già preparati sul tavolo attorno al quale si giuoca. I giuocatori, uno alla volta, secondo si è stabilito prima del giuoco, fiutando i diversi mucchi, devono indovinare sotto quale di essi si nasconde il danaro. A chi riesce d’indovinare va la somma nascosta sotto il mucchio scoperto. Il divertimento di questo giuoco sta nel vedere gli atteggiamenti di coloro i quali nell’annusare i mucchi ne aspirano la semmola sternutando maledettamente. Lo stesso giuoco, ora caduto affatto in disuso, si fa anche indicando semplicemente il mucchio sotto il quale si crede celato il danaro.
3. MARÓNCINO.
È un giuoco che si fa da due o più ragazzi con un ciotoletto o altro pezzo di sasso rotondo detto maróne, tirandolo ad una certa distanza, e procurando di tirarvi vicini de’ soldi. Prima si fa la cónta; e a colui al quale tocca il punto al conto, getta il ciololetto detto bóccia o maróne, e poi vi tira appresso il suo soldo. Destinato il posto da cui ciascuno scaglierà la sua moneta vicino al ciottolo, si fa l’ordine di successione al tirare. L’ultimo, cioè colui che mandò la sua moneta più distante dal maróne, raccoglie le monete, e fattone un mucchio, le situa dove vuole, affinchè il primo vi batta su col maróne, lanciandovelo sopra in modo sì netto e vibrato, che muova tutte le sottoposte monete. Se il colpo non riesce, passa il diritto di colpire al secondo, e poi al terzo e così via via.
4. ARMA E SSANTO.
La moneta, di cui si è parlato nel precedente giuoco Maróncino, che non viene mossa, è lanciata in alto dal padrone di essa: nell’aria deve brillare, frullare, onde si tolga il sospetto di arte nella caduta favorevole a chi la lanciò. Mentre la moneta sta per lanciarsi, sino al punto in cui ritocca il suolo, ciascuno fa la sua scommessa sulla faccia che mostrerà dopo caduta, cioè arma o santo. E qui giova avvertire che le vittorie di tutto il giuoco consistono in questa alternativa. Così lo descrive il Belli nel suo magnifico sonetto Er giôco der Maróncino, del 22 agosto 1830.
5. MARÓNCINO AR MURICCIÒLO.
È un giuoco identico al precedente. La differenza sta solo in questo, che cioè il mucchio di soldi invece di porlo in terra si pone in bilico sul muricciolo, ossia basamento, bugnatura o altra cosa sporgente da un muro, e quindi vi si batte sopra col maróne, come nel giuoco a Maróncino.
6. A SSANTUCCIO.
Anche questo giuoco si fa come i due precedenti; soltanto varia in questo, che il giocatore che mandò la sua moneta più distante dal maróne (che in questo giuoco si chiama santuccio), quando raccoglie le monete e ne fa un mucchio, pone questo sopra il santuccio e intorno col gesso vi disegna un circolo. Destinato il posto dal quale ciascuno scaglierà la sua piastrella vicino al santuccio e fatto l’ordine di successione al tirare, colui che con la sua piastrella coglie il santuccio sparpagliandone il danaro, vince tutte quelle monete che hanno oltrepassato il circolo. Se il colpo fallisce al primo giocatore, passa il diritto al secondo, e così via via.
7. GATTA-CÈCA.
La Gatta-cèca — dice l’illustre prof. Pitrè — è un giuoco antichissimo e diffuso in tutto il mondo. Si eseguisce da parecchi ragazzi nel modo seguente: Si fa prima la conta. A colui cui tocca il punto al conto convien bendarsi gli occhi con un fazzoletto: così bendato si chiama Gatta-céca. Il capo-giuoco, prima di dare un colpo sulle spalle al bendato, per indicargli che deve incominciare il giro in cerca de’ giocatori che a loro volta lo colpiranno, gli dice:
— Gattacéca, d’indove ne vienghi?
— Da Milano.
— Che mme porti?
— Pane e ccacio.
— Me dai gnente a mme?
— No.
— Brutta Gattacecaccia, vatt’a ccerca chi tt’ha ddato — gli dice colpendolo e poi allontanandosi e mescolandosi fra gli altri compagni.
Se la Gatta-céca riesce ad acchiappare uno dei suoi colleghi, questo è obbligato a prendere il suo posto; e così via via.
8. GATTA-CÈCA A LA PILACCIA.
Questo giuoco si fa bendando una persona, la quale deve, in quello stato, avanzarsi verso il posto dove prima le si era mostrata in terra una pignatta (pilaccia); e, giunta ove la pignatta si trova, percuotere questa con un bastone. Quando la Gatta-céca, smarrita la traccia, va a percuotere in falso od in luogo pericoloso, le si grida: «Fôco!».
9. CAROZZA D’ORO.
È un giuoco che si eseguisce da parecchi ragazzi. Si fa la cônta; quindi il capo-giuoco dà a ciascuno dei giocatori un soprannome. Per esempio: orecchino d’oro, cucchiaio d’oro, spilla d’oro, tutto deve essere d’oro. Fatto questo il capo-giuoco si mette a sedere a fare da mamma, e il giocatore destinato a sorte dalla cônta s’inginocchia davanti a lui, e mette la testa tra le sue gambe, in modo da non poter vedere nulla; tutti gli altri, a breve distanza, si dispongono intorno a loro due, dicendo, mentre girano le mani sul petto:
«Lavorate, lavoranti,
Chè le forche so’ ammannite
P’impiccavve a ttutti quanti
Lavorate, lavoranti!».
La mamma fa cenno a uno de’ compagni che le stanno d’attorno di colpire sulle spalle quello che sta inginocchiato davanti a lei. Ciò fatto, tutti si rimettono a girare le mani ripetendo:
«Lavorate, lavoranti, ecc.».
Il fanciullo colpito, si alza e dice alla mamma:
— Monsignore m’hanno ferito.
— Chi vv’ha ferito?
— La lancia.
— Annatel’a ppija in Francia.
— E si in Francia nun c’è?
— Trovàtelo indov’è.
— E si nun cé vô vieni’?
— Pijàtelo pe’ ’n’orecchia, e pportatelo qui.
A questo comando il fanciullo si dirige verso il compagno che suppone lo abbia colpito; lo prende per un orecchio, lo conduce davanti alla mamma, la quale gli dice:
— Chi è essa?
— Carne allessa (o callaléssa).
Se lo ha indovinato la mamma gli risponde:
— Buttàtela ggiu ch’è essa.
E se non ha indovinato:
— Rimétteteve ggiù; ché nun è essa.
Ed egli deve rimettersi in ginocchio e ricominciare daccapo.
Il Belli, senza dare il titolo di questo stesso giuoco, così lo descrive: «Fra gli altri sollazzi puerili, usa in Roma il seguente. Un fanciullo si asside giudice. Un altro curvato e colla faccia in grembo a lui, è percosso da qualcuno del resto della compagnia che si tiene ivi presso schierata. Rizzatosi allora sulla persona, dice al giudice l’offeso: Monsignore, ecc. ecc. Pijatelo pe’ ’n’orecchia, e pporatelo qui. Con questo mandato va egli attorno, fissando in volto tutti i suoi compagni, se mai vi apparisce alcun modo dal quale arguire la verità: mentre gli esplorati si agitano fra le più curiose smorfie del mondo, per comporsi ad un aspetto d’indifferenza. Finalmente ne sceglie uno, e lo conduce al giudice che gli domanda: Chi è questo? Il querelante risponde: Carne allesso; e il giudice, rivestito insieme della prerogativa di testimonio, riprende: Riportatelo via che nun è esso; ovvero: Lassatelo qui che è esso, secondoché il reclamo era bene o male applicato. Nel primo caso, il povero deluso ritorna al suo posto in seno al giudice per subirvi nuove percosse; nel secondo, vi subentra invece il reo convinto; e si ripetono in quella piccola società colpe, accuse e condanne».
10. SEDIA PAPALE.
È un giuoco che va eseguito da tre fanciulli. I due più grandicelli formano con le loro mani, dandosele a croce, una specie di seggiola, molto comoda, e vi adagiano sopra il terzo compagno. E mentre lo portano così attorno, come va il papa in sedia gestatoria, cantano:
«Sedia papale,
È mmorto er cardinale;
È mmorta la papessa
Un corno in culo
A tte e a éssa!»
11. ER CARZOLARO.
Il capo-giuoco siede, in modo di trovarsi situato fra due suoi compagni. Egli, fingendo di cucire la suola di una scarpa, tira lo spago, slargando le braccia e dice:
«Mi padre fa er carzolaro;
Tutti li ggiorni ne fa un paro.
E quanno è ’r vennardì,
Pija uno stronzo e ffa ccusì!»
e in così dire coglie il momento propizio per appoggiare un ceffone a ciascuno de’ suoi due colleghi. Ma questo più che un giuoco è uno scherzo.
12. SARTALAQUAJA A CCAMMINÀ’.
I giocatori, disposti in fila uno dietro l’altro, a una certa distanza, s’incurvano alquanto, appoggiando le mani sulle ginocchia; meno quello che sta dietro a tutti, il quale rimasto diritto, salta uno per uno i compagni, incurvandosi poi anche lui dopo l’ultimo saltato, mentre il primo alla sua volta si drizza per far egli i salti, e così di seguito.
13. SARTALAQUAJA A MMUSA.
Si fa la conta; quello cui va il punto del conto va sotto. Si fa una riga in terra, per indicare il punto dal quale si deve spiccare il salto. Chiunque nel saltare tocca la riga col piede, prende il posto del paziente. L’ultimo dei saltatori deve dire, nel saltare, la parola Musa. Allora il compagno che è sotto deve situarsi circa un altro passo distante dal punto in cui si trova. Se l’ultimo giocatore che deve saltare dimentica di dire la parola Musa, egli è costretto a prendere il posto del paziente. Poi si ricomincia da capo il giuoco.
14. A LA BELLA INSALATINA.
E come il Sartalaquaja, e a’ miei tempi non era affatto conosciuto. Ogni giocatore nel saltare il compagno curvato, deve ripetere il verso della canzoncina che dice il capo-giuoco. Se uno si sbaglia, o dimentica qualche parola, è tenuto ad andar sotto. Ecco le parole:
«A la bbella insalatina,
Ce l’ho ffresca e ricciolina,
Ce l’ho bbôna e dda magnà’
La Signora ne vô ccomprà’?
E ne compra un bajocchétto;
Je la ficco e je la metto,
Je la metto insino al busto.
La Signora ce sente gusto,
Ce sente gusto per un’ora».
Altra volta il capo-giuoco ricomincia daccapo il divertimento, dicendo:
«Óla,
A ’st’antra passeggiata la pezzòla
A cchi nu’ la lascerà
Sotto sotto ciannerà»
e lascia il suo fazzoletto sulla schiena del compagno che sta sotto. Cosa che gli altri giocatori devono imitare. Oppure il capo-giuoco nel ritornare a saltare dice, riprendendo il fazzoletto:
«Óla,
A ’st’antra passeggiata la pezzòla
A cchi nu’ la pijerà
Sotto sotto ciannerà»
E ciascuno a sua volta deve riprendere il proprio fazzoletto. Chi si scorda di prenderlo, o lo lascia cadere, o non ripete a puntino le suddette parole, è tenuto ad andar sotto.
15 . VÓLA-VÓLA
E un giuoco di pegno che si fa tra ragazzi o anche da adulti. La mamma, o capo-giuoco, tiene un fazzoletto annodato ad uno de’ capi e dice:
«L’ucello mio voló voló
Sopra un albero de fichi se posó:
E nel posarsi, disse… Che disse?…»
e qui getta il fazzoletto a uno dei giocatori, il quale è immediatamente tenuto a rispondere con un proverbio; e dettolo deve ripetere:
«L’ucello mio voló voló
Sopra un albero de cerase (o d’altro) se posó:
E nel posarse, disse… Che disse?…»
e lanciare alla sua volta il fazzoletto sopra ad un altro compagno, ed aspettare anch’esso che risponda con un proverbio diverso. Chi non è pronto a dir subito il proverbio, chi ne ripete uno già detto da altri, è tenuto a pagare il pegno. Questi pegni vanno alla mamma, la quale, a giuoco finito, quando cioè non resta nessun altro a perdere, assegna le penitenze. Nell’assegnar queste, il capo-giuoco o la mamma che sia, per sapere a quali dei giocatori appartengano i singoli pegni, dice le sacramentali parole:
«Cinci-cincinèllo:
Di chi è ’sto campanèllo?».